domenica 30 marzo 2014

DICONO DI LEI


Traum am Ende
La dimensione onirica nell’opera di Veronica Mazzucchi

di Manlio Della Serra



Non è insolito, ormai, dover constatare come l’opera d’arte sconfini di continuo in settori e in ambiti un tempo preclusi. Un’apparente invasione di campo che sa rendere duttile la prestazione dell’artifex anche nella sua disorientante vocazione terapeutica. E se di θεραπεία si è abituati a trattare in ambito prettamente medico, l’opera di Veronica Mazzucchi intende mostrare un risvolto di ulteriore compimento. Una ricerca totalmente impostata sulla fisicità, caricando i corpi di torsioni, inviluppi, pose convulse, per raggiungere l’invisibile incrocio su cui si insiste da millenni. Corpo e anima che si desiderano e si respingono. La vita stessa è la parentesi inalterabile che lega queste due sostanze. Ma la dimensione terrestre, che i materiali pittorico e scultoreo evocano, sarà d’ora in avanti ricettacolo del suo disfacimento. Distrutte le catene che reggono ogni ovvietà visiva, l’operazione di scavo, come l’indagine a essa associata, si fanno invisibilmente propiziatorie. L’opera di Veronica Mazzucchi non ha bisogno di attese. Non si conclude là, dove lo sguardo arreso la coglie come un manufatto di grande intensità. Come nel mito platonico che descrive il risveglio di Er, l’ambizione è qui riassunta nel superamento. Il corpo è meticolosamente passato al setaccio. Ad attenderlo, un mattatoio da cui uscirà rigenerato. Non c’è suono, né odore. Ma la dislocazione visiva che sembra voler accontentare con un assetto chiaramente riconoscibile è sempre un rimando al viaggio, alla perdita della nozione di tempo misurabile. Un invito al sogno che deve destare il conflitto e risolverlo. Il sogno è la cerniera che pacifica i due regni, il nembo che dà respiro al deserto in fiamme. Immodesta ma pertinente, la confidenza dell’Anticlaudianus di Alano di Lilla. Natura può forgiare il corpo, mentre un lungo viaggio ammantato di peripezie e indugi potrà provvedere alla costituzione dell’anima. Il percorso redentivo conosce il sogno come in un antro nullificante: si smarrisce la regola della casualità, ogni ordine viene meno, perché si possa guardare al corpo spodestato, lacero, urtato e livido che tanto rinvia alle imprecazioni di Soutine e Modigliani. Il corpo centrato e pallido è sempre il punto di partenza, la leva che procede a sollevare. Se il corpo non prova vergogna e l’anima raccoglie la sfida, il terreno neutro, quello onirico e vivificante, è l’anticamera di ogni futura successione. Persino l’addestramento delle leggi di natura in La tempesta suggerisce a Prospero di affidare il gesto magico al traguardo onirico e sfuggente: «Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita è circondata dal sonno». Così in Dafne (2013) Veronica Mazzucchi ricorda il delirio della trasfigurazione, lo spaesamento del corpo quando Oniro sopraggiunge a risolvere ogni ambiguità. Nelle tonalità predilette, si riscontrano le vertiginose arrampicate cromatiche di Kiefer, qui snellite e compattate in slavature opache. Mancano le macerie perché qui la vocazione è altamente protrettica. Il corpo si esprime con un rantolo. L’anima, invisibile, procede a recuperarlo. Proprio questo il significato ultimo della cromia che affida allo spaesamento del sogno gli arnesi per operare. La contorsione si risolve in taglio, affumicata e annerita con velature che non lasciano presagire alcuna chiarezza placida e assertiva. Là entra il sogno che devasta e conclude.