"Chi sono io? Chi sono diventata? ... Ho aspettato
un'eternità che qualcuno mi dicesse una parola affettuosa... qualcuno che
dicesse 'Oggi ti amo tanto', come sarebbe bello, devo solo alzare la testa e il
mondo sempre davanti ai miei occhi mi sale nel cuore ..." - da "Il
cielo sopra Berlino" di Wim Wenders E' autunno, nelle opere di Veronica
Mazzucchi. Un preludio all'inverno. La pioggia non lava via il dolore dalla
pelle, fragile crosta di roccia spaccata sotto la quale scorre il magma del
sangue. Una pelle predestinata e contaminata dalla fine, che già accoglie sulla
propria superficie il sole morente dell'ultimo giorno. E' il deserto. Un
silenzio ovattato, fermo nella sua luce è il teatro di questi burattini che si
contorcono lentamente e dolorosamente come creature ai margini di strade, una
vita infinitesimale inconosciuta, come di certi batteri della cui esistenza si
sa solo se visti attraverso il microscopio. Vermicolanti, eppure immote, un
lento movimento nell'abbandono. Non consola il grembo materno, è un miraggio
ingannevole, non scalda la sofferenza silente, privata, lontano dalle strade
percorse da moltitudini di piedi distratti e distanti, indifferenti. La libertà
è un volo bloccato da uno spazio chiuso, claustrofobico, una gabbia arrugginita
dal tempo, l'edera ci cresce intorno, il legno si erode, il ferro arrugginisce,
estruso dall'anima, a contatto con l'aria assume la forma dell'urlo. Già l'idea
dell'amore è sofferenza, preclusa da un involucro che genera il dolore. Il
cielo è lontano, l'azzurro è lontano, solo il rosso rimane: il sangue. Vorrebbe
volare, ma è privo di un'ala. L'angelo è imbrattato di terra, è una spirale di
fumo, si contorce, si indurisce di essenza impalpabile, è il fango della
Creazione, un fango che forse ha perso Dio, cieco, nel vuoto. A volte
intravvedi la struttura, labile e materica nello stesso tempo, stadio larvale
di sofferenza, di bozzolo intimidito, pudico, che si nasconde come animale
ferito. Se il corpo supera lo stadio di angelo ferito, l'ala mancante e la
madre illusoria, il ventre rigonfio di dolore si affaccia titubante al flusso
della vita e il corpo diviene carne. Ma subito l'autodistruzione emerge da
profondità nascoste e il sangue vuole uscire, lacera la pelle, la carne, e
nulla può ricostituirlo, la ferita è profonda. Il corpo si incrina. ... e con
Veronica: "Fragile, cammino in punta di piedi in attesa di tornare a
volare".
M.Elena Danelli, 30 marzo 2013